Autorita' per
la vigilanza sui lavori pubblici
Determinazione
n. 9/2004 del 19 maggio 2004
Contenzioso
in fase di appalto conseguente ad una o più sospensioni dei lavori,
disposte - in esito a prescrizioni degli organi preposti alla tutela dei
beni culturali - per l’esecuzione di campagne di indagini
archeologiche nel sottosuolo.Valutazione della possibilità di limitare
gli effetti negativi di ordine economico correlati a tale fattispecie.
IL
CONSIGLIO
Premesso
che:
Tanto
premesso, ravvisata l’esigenza e l’importanza di conoscere
l’avviso del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali in ordine
alle possibili iniziative da intraprendere, ne sono stati sentiti i
rappresentanti nell’audizione disposta in data 21.4.2004.
In
tale sede gli intervenuti hanno dettagliatamente rappresentato che le
problematiche evidenziate investono aspetti da tempo all’attenzione
del Ministero, il quale ha ben presente la necessità di mettere a punto
regole capaci di consentire con pari efficacia l’azione di tutela e la
realizzazione degli appalti “con il minor sacrificio degli
operatori”.
Ritenuto
in diritto
Una
considerazione preliminare riguarda la natura dell’area sulla quale è
prevista la realizzazione dell’opera pubblica, intendendo con ciò se
la stessa sia sottoposta o meno ad uno specifico vincolo archeologico.
In
caso affermativo, la normativa vigente prevede che l’organo preposto
alla tutela esprima il proprio parere – di norma in sede di conferenza
di servizi – al fine di chiarire alla stazione appaltante se e a quali
condizioni l’opera a farsi sia compatibile con i principi sui quali si
basa la conservazione del patrimonio culturale e, nel contesto
particolare, se l’esecuzione delle specifiche categorie di lavoro
previste dal progetto possa interferire con la salvaguardia dei resti
archeologici presumibilmente esistenti nel sottosuolo.
Questa
ipotesi, sufficientemente disciplinata nei suoi aspetti procedurali,
dovrebbe portare ad una conoscenza preventiva degli elementi ostativi
alla proficua esecuzione dei lavori, escludendo perciò (o, quanto meno,
riducendo significativamente) la possibilità che in corso d’opera si
verifichino circostanze impeditive connesse ai ritrovamenti
archeologici, con gli effetti negativi indicati in precedenza.
Appare
evidente che il passaggio procedurale appena descritto, benché
articolato in forma semplice e ‘lineare’, non può garantire alcun
effetto realmente positivo se il rapporto fra la stazione appaltante e
l’organo preposto alla tutela non risulta improntato alla massima
collaborazione, diligenza e chiarezza.
Per
fare un esempio concreto, se l’amministrazione che ha indetto la
conferenza di servizi presenta in quella sede un progetto privo degli
opportuni approfondimenti di dettaglio in ordine alla tipologia ed alle
caratteristiche geometriche delle strutture di fondazione, non consentirà
l’espressione di un parere compiuto da parte del rappresentante della
competente soprintendenza archeologica, oppure ne potrà ottenere un
assenso condizionato alla esecuzione – in corso d’opera - dei
necessari saggi e della correlata valutazione dei risultati, senza perciò
conseguire alcun risultato utile ad evitare interferenze tra svolgimento
della fase esecutiva dell’appalto ed azione di tutela dei beni
archeologici eventualmente presenti.
La
Soprintendenza Archeologica competente per territorio, per contro, non
può esimersi dal rappresentare in maniera esaustiva le esigenze
derivanti dalle proprie attribuzioni, senza però dimenticare che il
proprio parere interviene nell’ambito di una procedura d’appalto, la
cui finalità è la costruzione di un’opera pubblica da realizzarsi
attraverso un’attività uniformata ai criteri di cui all’art.1 della
legge n.109/94.
Questo
non può – ovviamente – significare che gli organi preposti alla
tutela debbano improntare la loro azione riferendosi unicamente al
rispetto dei principi di efficienza, efficacia, tempestività ed
economicità dell’azione amministrativa in materia di appalti.
Difatti,
la tutela dei beni archeologici e, più in generale, di quelli
culturali, ha il fine di garantire la fruizione, anche per le
generazioni future, di un patrimonio universale ed inestimabile, la cui
conservazione assume un valore che prescinde da qualsiasi monetizzazione
e si pone – oggettivamente - come principio superiore a quelli
indicati dall’art.1 della legge n.109/94 e perciò prevalente su di
essi.
Risulta
tuttavia più facile il tentativo di coniugare l’esercizio di ogni
necessaria azione di tutela nell’eventualità di ritrovamenti
archeologici ed il rispetto di tempestività ed economicità nella
procedura d’appalto allorquando - in un’ottica di comprensione dei
rispettivi limiti di competenza e margini di operatività, anche
finanziaria - viene assicurata la conoscenza reciproca e preventiva di
tutti gli elementi utili alla valutazione delle problematiche da
affrontare, nonché delle difficoltà connesse.
Ad
avviso del competente Ministero - che considera parimenti essenziale
l’azione preventiva – un’opzione praticabile potrebbe essere
quella di ‘istituzionalizzare’ la presenza dei tecnici della
Soprintendenza sin dalle prime fasi della progettazione, con il
risultato di garantire l’approccio metodologico più idoneo e
l’adozione delle proprie determinazioni su basi conoscitive certe,
evitando di restringere l’espressione del parere di competenza
all’unica sede della conferenza di servizi, in esito alla quale
scaturisce – quasi inevitabilmente - un’autorizzazione subordinata
all’esecuzione di successivi accertamenti.
In
sostanza, l’Amministrazione dei BB. e delle AA.CC. delinea ed auspica
l’affermazione di un ruolo differente per le Soprintendenze, superando
quello ‘autorizzatorio’ o ‘censorio’, per rivestire quello di
piena collaborazione e di corresponsabilità; in tal senso, la recente
attuazione di alcune iniziative ‘pilota’ di collaborazione con altri
Enti avrebbe già consentito di sperimentare una gestione dell’appalto
più attenta alle reciproche esigenze.
Comunque,
pur nell’ipotesi di una collaborazione anticipata alla fase della
progettazione preliminare, non è infrequente che sopravvenga la
necessità dell’esecuzione di indagini o campagne di scavo preventive,
cui consegue l’esigenza del reperimento delle risorse economiche per
dare seguito alle stesse.
In
proposito è noto come le Soprintendenze lamentino la persistente
insufficienza dei fondi per procedere direttamente ed autonomamente
all’espletamento di indagini archeologiche: in quest’ottica si
inquadra la richiesta che debbano essere le stesse amministrazioni
appaltanti a dotarsi dei finanziamenti sufficienti a garantire
l’esecuzione delle opportune indagini archeologiche, da condurre sotto
la direzione tecnico-scientifica della competente Soprintendenza
archeologica, così da consentire ad essa la completa conoscenza
dell’area e quindi l’espressione di pareri basati su elementi
scientifici concreti.
In
sede di audizione il Ministero ha tenuto ulteriormente a precisare che
tale assunto – già richiamato in alcune disposizioni normative per
particolari opere – ha trovato esplicita conferma nel Nuovo Codice dei
beni culturali e del paesaggio (D.lgs.n.41 del 22.1.04), in vigore
dall’1.5.2004, costituendo conseguenzialmente un obbligo di legge ‘generalizzato’.
Sull’argomento
è stato anche aggiunto che le risorse necessarie devono consentire –
in prima analisi – la sola esecuzione di saggi preliminari condotti
sotto la direzione scientifica della Soprintendenza competente, fermo
restando che eventuali ritrovamenti di significativa rilevanza
comportano – nel naturale ordine delle cose – l’obbligatoria
richiesta di uno scavo ‘a tappeto’, con le relative conseguenze in
termini di disponibilità dei fondi.
Per
contenere gli effetti di questa possibile incertezza finanziaria, il
Ministero ha formulato l’ipotesi concreta di anticipare le indagini
archeologiche già alla fase del progetto preliminare, contenendone
l’entità economica, con la finalità di valutare l’opportunità di
proseguire nella progettazione definitiva e, nel caso, con quali
vincoli, nonché con l’obiettivo di valutare l’esigenza di un
successivo scavo ‘integrale’.
Ciò
anticiperebbe la cognizione di due aspetti fondamentali:
1)
verifica della fattibilità dell’opera programmata;
2)
necessità di reperire ulteriori ed adeguate risorse, anche attingendo a
differenti fonti di finanziamento, per assicurare tanto l’esecuzione
dello scavo ‘integrale’, quanto la conservazione e la fruizione di
reperti archeologici di eccezionale importanza.
Risulta
infatti evidente come sia difficile che una stazione appaltante possa
essere in grado di disporre di risorse economiche tali da indagare
completamente ed esaustivamente (nell’accezione intesa dalle
Soprintendenze archeologiche) le aree interessate dai vari appalti di
opere pubbliche contemplati nel programma triennale, tanto più che
indagini siffatte finirebbero per costituire dei veri e propri
interventi autonomi, il cui svolgimento – in termini di tempi,
costi, valutazione degli esiti e finanche di esecuzione dell’opera
originariamente prevista - sarebbe per di più sottratto alla potestà
discrezionale ed alla connessa responsabilità, poste in capo alle
singole amministrazioni.
Quest’ultima
considerazione, tra l’altro, incide anche sul ruolo del responsabile
del procedimento, svuotando parzialmente di significato il possibile
richiamo alle disposizioni regolamentari (artt.18, 19 e 36 del D.P.R.
n.554/99), le quali pongono a carico della stazione appaltante tutti
quegli adempimenti correlati alla progettazione che possano ridurre gli
imprevisti in corso d’opera, e che trovano un loro limite proprio
nella fattispecie trattata, imperniata sulla tutela dei beni
archeologici.
Infatti,
l’unico organo preposto alla individuazione, con metodo scientifico,
dei beni da tutelare nonché alla determinazione delle relative modalità
- intese sia con riferimento alle tecniche di rilevamento che a quelle
di conservazione - resta, in via esclusiva, la Soprintendenza
Archeologica competente per territorio.
Ciò
significa che l’esecuzione preventiva di indagini archeologiche,
qualora venisse disposta unicamente su iniziativa dal Responsabile del
procedimento nominato dalla stazione appaltante, risulterebbe condotta
da un soggetto privo della necessaria legittimazione in ordine alla
conoscenza ed all’utilizzo delle corrette metodiche di scavo, rilievo
e catalogazione, nonché – soprattutto - in ordine alla valutazione
dell’importanza che i ritrovamenti rivestono per la collettività ed
alla più opportuna tipologia d’intervento per assicurarne la
fruizione o, quanto meno, per documentarne l’esistenza.
Paradossalmente,
un’attività siffatta - benché ispirata dalla volontà di ridurre gli
imprevisti in corso d’opera ed i conseguenti prevedibili oneri -
potrebbe configurare essa stessa un maggior costo, concretizzandosi in
un’attività i cui frutti risultano incerti e quindi privi di una
concreta utilità, sia ai fini della tempestiva conduzione
dell’appalto, sia ai fini della tutela del patrimonio archeologico.
L’anticipazione
delle prospezioni archeologiche a cura della competente Soprintendenza
risulta perciò auspicabile, ma deve altresì sottolinearsi come in
molti casi le relative indagini vengano disposte perché non può
escludersi - a priori - la presenza di resti antichi nella zona
interessata dal nuovo intervento e che spesso le strutture riportate
alla luce non rivestono un’importanza tale da imporre un ripensamento
dell’intero progetto; anzi – una volta eseguiti i rilievi grafici e
fotografici, documentando l’attività svolta ed i risultati conseguiti
– l’iter può anche concludersi disponendo la ricopertura di quanto
scavato (in particolare quando la conservazione risulti problematica),
al fine di evitarne il degrado.
Se
quindi continua ad avere un valore l’affermazione secondo cui “il
miglior museo è la terra”, come può desumersi dalle Carte del
restauro e dalle Convenzioni internazionali (quali la Carta di Atene,
che sintetizza l’esito dei lavori della Conferenza Internazionale del
1931), nulla vieta che l’organo preposto alla tutela – preso
atto della onerosità (e quindi dell’estrema difficoltà di
realizzazione, se non addirittura dell’impossibilità economica) di
compiere un’indagine archeologica ‘a tappeto’ estesa all’intera
area di sedime della nuova costruzione e delle sue pertinenze –
esprima un parere favorevole, per quanto di competenza, subordinando
l’esecuzione dei lavori alla previsione di soluzioni tecniche
progettuali non interferenti con il sottosuolo archeologico (intendendo
con tale termine lo strato di terreno, situato ad una determinata
profondità, che può racchiudere in sé i segni dell’attività umana
antica), così da non precludere future eventuali azioni di scavo e
documentazione.
Volendo
trarre delle prime conclusioni da quanto sin qui riportato, deve perciò
evidenziarsi che quando l’appalto a farsi insiste su di un’area
sottoposta a vincolo archeologico, la successiva sospensione dei lavori
- disposta in esito a rinvenimenti di significativo interesse – si
ricollega ad una circostanza indubbiamente imprevista, ma che non può
definirsi – con altrettanta certezza – imprevedibile.
Se
quindi la stazione appaltante e l’organo di tutela non hanno
improntato la loro azione, ognuno per quanto di rispettiva competenza, a
rendere esaurientemente chiare e precise le condizioni di fattibilità
dell’intervento da realizzare, gli eventuali maggiori oneri connessi
alle interruzioni nella fase esecutiva dei lavori potranno dar luogo a
contestazioni di addebito da parte della Corte dei Conti, rivolte ai
soggetti che ne sono stati responsabili.
Fin
qui si è trattato della fattispecie in cui la presenza di un vincolo
archeologico impone un vaglio progettuale - ad opera della competente
Soprintendenza – che interviene prima dell’aggiudicazione
dell’appalto e, spesso, prima della redazione del progetto esecutivo,
per cui è possibile operare tutte le valutazioni del caso al fine di
evitare che le problematiche irrisolte si possano tradurre in
impedimenti all’atto dell’esecuzione dei lavori, con le conseguenze
economiche e temporali che sono state indicate.
Vi
sono però anche i casi in cui sull’area di sedime dell’opera a
farsi non grava uno specifico vincolo archeologico, oppure casi in cui,
pur in presenza dell’anzidetto vincolo, non è possibile eseguire
preventivamente tutti i saggi necessari, per la presenza di corpi di
fabbrica da demolire nell’ambito dell’appalto da affidare.
Sono
queste le fattispecie nelle quali il problema dei rinvenimenti
archeologici si manifesta pienamente solo in corso d’opera ed in
quella sede deve essere affrontato, imponendo quindi l’interruzione
delle attività di cantiere per consentire l’espletamento delle
opportune indagini sotto la direzione scientifica della Soprintendenza
archeologica.
Se
al verificarsi di tale ipotesi risulta ovviamente tramontata ogni
possibilità di azione in termini di prevenzione, la consapevolezza del
concreto rischio di una configurazione di maggiori oneri - che ogni
protrazione temporale dell’appalto reca in sé - rende ancora più
necessario che la stazione appaltante e l’organo di tutela adottino
comportamenti e provvedimenti idonei a limitare l’entità degli
eventuali danni.
Per
quanto concerne l’Amministrazione appaltante, non può nemmeno
escludersi – in casi particolari - il recesso dal contratto, ai sensi
dell’art.122 del D.P.R.n.554/99, qualora ciò risulti opportuno in
esito ad una valutazione ponderata delle circostanze di fatto.
Nella
generalità dei casi, invece, qualora venga disposta la sospensione dei
lavori, deve innanzitutto ricordarsi l’importanza delle disposizioni
contenute nell’art.133, commi 4 e 5, del D.P.R. n.554/99, il cui
rigoroso rispetto da parte del direttore dei lavori è sicuramente utile
ad evitare contrastanti descrizioni in ordine alla consistenza della
forza lavoro e dei mezzi d’opera esistenti in cantiere al momento
della sospensione e durante l’intera protrazione della stessa, ferma
restando la necessità che vengano impartite le necessarie disposizioni
al fine di contenere macchinari e mano d’opera allo stretto
indispensabile.
Inoltre,
sarà opportuno che in corso di esecuzione delle indagini archeologiche,
svolte sotto la direzione scientifica della competente Soprintendenza,
il direttore dei lavori si mantenga in stretto contatto con i
rappresentanti dell’organo di tutela, per conoscere in tempo reale le
valutazioni sull’importanza dei reperti messi in luce e sulle modalità
per assicurarne l’eventuale conservazione in situ, al fine di
prefigurare le possibili ripercussioni sui lavori appaltati ed
anticipare – per quanto possibile – lo studio delle modifiche che si
dovessero rendere necessarie, riducendo i tempi di redazione di
un’eventuale variante in corso d’opera.
Per
quanto riguarda le possibili iniziative poste in essere da parte
dell’organo preposto alla tutela dei beni culturali, è fuor di dubbio
che il peculiare ambito di competenza porta a focalizzare l’attenzione
soprattutto sui possibili ritrovamenti, con l’evidente finalità di
assicurarne la conoscenza e – se possibile – la fruizione. Ciò
tuttavia non esclude che debbano essere ben presenti anche le funzioni
attribuite all’Ente appaltante, tenuto a garantire la tempestività ed
economicità di ogni procedura di esecuzione di lavori pubblici
In
concreto, la consapevolezza delle altrui responsabilità non può che
tradursi in tempi di espletamento delle attività di competenza che
siano sempre contenuti nella misura strettamente necessaria
all’espressione delle proprie valutazioni, dovendo altresì ribadire
che eventuali comportamenti caratterizzati da lungaggini o inerzie,
potendo dar luogo a maggiori oneri, implicano l’imputabilità del
danno erariale, ad opera della magistratura contabile, nei confronti di
tutti i soggetti che – a qualsiasi titolo - ne siano ritenuti
artefici.
Anche
sotto questo aspetto il Ministero dei BB. e delle AA.CC. ha inteso
sottolineare la propria costante attenzione, dando conoscenza della
recente emanazione di un provvedimento interno (Circolare DGBA n.9786
del 10.6.03), finalizzato proprio allo snellimento delle procedure
amministrative ed inteso ad incrementare l’autonomia decisionale degli
Uffici periferici, con l’obiettivo di ridurre quei tempi decisionali
che possono comportare le note conseguenze in termini di maggiori oneri.
Infine,
restano da svolgere alcune ulteriori riflessioni sulle attività che, di
norma, fanno seguito all’interruzione dei lavori connessa al
ritrovamento di reperti archeologici.
In
primo luogo, deve rilevarsi che le campagne di scavo archeologico
disposte in regime di sospensione risultano frequentemente attuate con
il sistema delle liste in economia ed il ricorso alla mano d’opera
della stessa impresa aggiudicataria, previa verifica della disponibilità
all’affidamento diretto dei relativi lavori. Il ricorso a tale modalità
di effettuazione viene giustificato con l’urgenza e l’opportunità
di avvalersi di una forza lavoro già presente in cantiere, da porre
agli ordini della direzione scientifica della Soprintendenza.
Benché
l’importo complessivo di tali lavori in economia possa risultare
scarsamente significativo se paragonato a quello contrattuale, è
indubbio che al ricorrere di tale circostanza l’appaltatore ottenga un
affidamento aggiuntivo – sottraendosi, per le suddette ragioni di
correntezza, a qualsivoglia procedura concorsuale – e ne tragga
un utile.
In
secondo luogo, può verificarsi con analoga ricorrenza che per effetto
delle risultanze dello scavo archeologico sia necessario apportare
variazioni al progetto approvato, prevedendo un incremento delle
lavorazioni a farsi, concordando gli eventuali nuovi prezzi con
l’aggiudicatario e perfezionando il rapporto contrattuale in essere
tramite la sottoscrizione di un apposito atto di sottomissione o di un
atto aggiuntivo al contratto stesso.
Anche
in questo caso l’appaltatore trae un utile dai maggiori lavori
affidati, per l’assunzione dei quali sostiene indubbiamente oneri in
misura ridotta, in considerazione del fatto che – oltre a non
sobbarcarsi le spese di una nuova gara – ottiene certamente il
risparmio connesso all’utilizzo dell’impianto di cantiere già
esistente.
È
altrettanto frequente che l’impresa iscriva riserve in conseguenza
della sospensione dei lavori, lamentando il danno subito in termini di
protrazione gestionale ed elencando gli oneri aggiuntivi sostenuti per
spese generali, macchinari e mano d’opera, mancato utile, ecc.,
determinandoli - in ossequio ad una prassi invalsa - mediante calcoli
aritmetici deduttivi.
Ad
esempio, per la stima delle spese generali infruttifere sostenute e
delle quali si chiede il ristoro, viene spesso operato il confronto tra
la produzione giornaliera effettiva e quella che viene definita
produzione giornaliera teorica, assumendo come unico riferimento per
quest’ultima le originarie condizioni contrattuali ed il relativo
cronoprogramm, ma senza considerare le eventuali modifiche economiche o
temporali che reggono l’appalto, intervenute su richiesta
dell’impresa o che si rivelano comunque migliorative per essa.
Sulla
base delle considerazioni che precedono, non sembra privo di utilità il
richiamo alle disposizioni di cui agli artt.24 e 25 del D.M.LL.PP.
n.145/2000 (Regolamento recante il capitolato generale d’appalto dei
lavori pubblici), in materia di ammissibilità delle sospensioni e di
modalità di calcolo del danno eventualmente derivante, cosicché,
all’atto della valutazione di ammissibilità e fondatezza delle
riserve iscritte dall’impresa sui registri contabili, risulti ben
chiara e presente l’esigenza di svolgere le seguenti verifiche:
1)
sussistenza dei presupposti per ottenere il riconoscimento dei danni
prodotti dalla sospensione dei lavori, ai sensi dell’art.24 del
D.M.LL.PP. n.145/2000;
2)
conformità della quantificazione del danno operata dall’appaltatore,
accertata con riferimento ai criteri indicati nel successivo art.25,
comma 2-lettere a), b), c), d), e comma 3;
3)
riconsiderazione degli importi calcolati a titolo di spese generali
infruttifere, lesione dell’utile, ammortamenti e retribuzioni
inutilmente corrisposte, qualora nel medesimo periodo di sospensione
l’impresa abbia ottenuto affidamenti aggiuntivi, traendone profitto.
In
estrema sintesi, nell’argomentare le controdeduzioni in merito alle
doglianze dell’impresa, non ci si può limitare all’analisi dei soli
elementi riportati nelle iscrizioni sugli atti contabili, dovendosi
invece apprezzare nella giusta misura tutte le circostanze che si sono
verificate nel corso della fase di esecuzione dell’appalto, al fine di
evitare la corresponsione di somme eccedenti l’effettivo danno patito
dall’impresa affidataria.
Dalle
considerazioni svolte segue che,
1.
al fine di assicurare sia il rispetto di tempestività ed economicità
nella procedura d’appalto, sia l’esercizio di ogni necessaria azione
di tutela nell’eventualità di ritrovamenti archeologici, appare utile
che le stazioni appaltanti valutino l’opportunità di coinvolgere il
competente organo preposto alla tutela sin dalla fase della
progettazione preliminare, studiandone – d’intesa con esso - le
possibili modalità di concreta attuazione.
2.
nel caso in cui il progetto di un’opera insistente su area soggetta a
vincolo archeologico venga sottoposto all’esame della competente
Soprintendenza solo all’atto della conferenza di servizi,
l’amministrazione appaltante ha l’obbligo di rendere chiaro in ogni
dettaglio il progetto presentato, così da consentire all’organo di
tutela l’espressione di un parere compiuto, sia esso pienamente
favorevole oppure condizionato allo svolgimento di ulteriori indagini
preventive. Il medesimo organo di tutela, per suo conto, dovrà in
quella sede indicare con altrettanta chiarezza (anche e soprattutto al
fine di determinare tempi e costi presuntivi) quali siano le condizioni
da rispettare per poter dar corso all’opera programmata, tanto
nell’ipotesi in cui vi siano sufficienti risorse per effettuare
campagne di scavo sotto la direzione scientifica della medesima
Soprintendenza, che nell’opposta circostanza in cui possa
realisticamente ipotizzarsi unicamente l’adozione di soluzioni
progettuali non interferenti con il sottosuolo archeologico.
3.
nel caso di sospensione dei lavori connessa a ritrovamenti archeologici
in corso d’opera, il concreto rischio di una configurazione di
maggiori oneri, conseguente alla protrazione temporale dell’appalto,
impone la massima sinergia tra la stazione appaltante e l’organo di
tutela, al fine di adottare comportamenti e provvedimenti idonei, che
tengano in giusto conto tanto la necessità di non arrecare pregiudizio
ai reperti presenti nel sottosuolo, quanto l’esigenza di limitare
l’entità degli eventuali danni che l’affidatario potrà subire.
4.
qualora alla sospensione dei lavori abbia fatto seguito l’insorgenza
di un contenzioso con l’impresa esecutrice, oltre a rimarcare
l’importanza della corretta applicazione delle disposizioni contenute
nell’art.133, commi 4 e 5, del D.P.R. n.554/99, e negli artt. 24 e 25
del D.M.LL.PP. n.145/2000, deve precisarsi che la disamina delle
doglianze annotate sul registro di contabilità e la conseguente
valutazione non potrà prescindere dalla conoscenza di tutte le
circostanze di fatto intervenute durante l’espletamento
dell’appalto, comprese quelle – non citate tra le riserve – che
sono oggettivamente suscettibili di implicare una riduzione del danno
lamentato.
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