Consiglio di Stato
- Sezione V - Decisione 7 marzo 2001 n. 1344
Appalti - Legittimità
escussione di cauzione prestata da impresa partecipante a una
licitazione privata che, prescelta con sorteggio pubblico ai sensi dell’articolo
10, comma 1-quater della legge 11 febbraio 1994, n. 109 per comprovare
il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa, richiesti nel bando di gara, non abbia fornito
tale prova
Ritenuto in
fatto
Viene in decisione l’appello
proposto dalla società in accomandita semplice Costruzioni generali
Dueffe di Festino Pasquale & C. avverso la sentenza in epigrafe
indicata con la quale il Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria
ha respinto il ricorso dell’odierna appellante rivolto all’annullamento
degli atti con i quali il Comune di Città di Castello disponeva l’escussione
della cauzione di Lire 50.599.915.= prestata dalla società stessa in
relazione alla licitazione privata per i lavori di urbanizzazione
connessi alla realizzazione del civico ospedale, nonché di ogni altro
atto presupposto e connesso.
L’Amministrazione comunale
intimata si è costituita anche in questo grado del giudizio e ha
concluso per la conferma dell’impugnata pronuncia.
All’udienza del 16 gennaio
2001 parti e causa sono state assegnate in decisione.
Considerato in
diritto
.L’appello è infondato.
La questione proposta con la
presente vertenza può essere così sintetizzata: se sia legittima l’escussione
di cauzione prestata da impresa partecipante a una licitazione privata
che, prescelta con sorteggio pubblico a’ sensi dell’articolo 10,
comma 1-quater della legge 11 febbraio 1994, n. 109 per
comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa, richiesti nel bando di gara, non abbia fornito
tale prova.
L’appellante, premesso che l’atto
impugnato ancorché consequenziale è sempre passibile di contestazione
per vizi suoi propri, lamenta con un primo mezzo la violazione dell’articolo
7 della legge 7 agosto 1990, n. 241 per omessa comunicazione di avvio
del procedimento (come peraltro confermerebbe la pur successiva
normazione contenuta nel regolamento di attuazione della legge n.
109/1994), e, con un secondo motivo, la violazione della lex specialis
della gara cristallizzata nel bando (che non prevedeva il ricorso all’escussione
della cauzione, ma solo la non accettazione della domanda di
partecipazione). Con ulteriore argomentazione, infine, l’istante
sospetta il succitato articolo 10 c. 1-quater della legge 11
febbraio 1994, n. 109 di violazione del principio di eguaglianza sancito
nell’articolo 3 della Costituzione e, per l’effetto, eccepisce l’illegittimità
costituzionale della disposizione e richiede, a questo scopo, che la
questione sia rimessa al Giudice delle leggi per il relativo sindacato.
Può prescindersi dalla
questione di inammissibilità del ricorso, prospettata anche in questo
grado del giudizio da parte del Comune di Città di Castello, per non
essere stato contestualmente impugnato l’atto presupposto, individuato
nella determinazione di escludere l’odierna appellante dalla
licitazione privata per i lavori di urbanizzazione connessi alla
realizzazione del civico ospedale, non conseguendo favorevole scrutinio
nessuna delle dedotte censure.
Sulla asserita violazione dell’articolo
7 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Correttamente il Giudice di
prime cure ha ritenuto l’insussistenza dell’obbligo di comunicazione
di avvio del procedimento sul rilievo che le previsioni del
summenzionato articolo 10 c. 1-quater della legge n. 109 del 1994
individuano una fase sub-procedimentale adeguatamente assistita da
prescrizioni che ne scandiscono i momenti "nell’articolato e
vincolato succedersi dei passaggi che la compongono" così che
nessun obbligo di previa notizia dell’incombente poteva gravare sull’amministrazione
appellata.
Per avvedersene è sufficiente
notare che l’adempimento non si collocava all’esterno della
procedura a evidenza pubblica alla quale l’odierna appellante aveva
chiesto di partecipare, ma in quel preciso contesto sicché non può
neppure ipotizzarsi una specie di frammentazione del procedimento in
tanti subprocedimenti preordinati agli adempimenti connessi al rispetto
di precise clausole normativamente imposte.
D’altro canto, non può
annettersi a un obbligo espressamente coordinato alla tutela degli
interessi dei soggetti coinvolti nel procedimento (quale è senza dubbio
la esplicita finalità del precetto contenuto nell’articolo 7 della
legge n. 241 del 1990) una valenza meramente astratta e formale,
svincolata, per dir così, dalla logica di presidio della situazioni
coinvolte dall’assetto prefigurato nel futuro e incerto provvedimento
alla cui adozione è strutturalmente oltre che funzionalmente collegata
l’acquisizione e la manifestazione degli interessi rilevanti. La
clausola generale di partecipazione ha senso e impone una doverosa
applicazione solo quando la prospettazione degli interessi e la loro
acquisizione determinino la necessità di uno specifico contraddittorio.
Così non è nel caso di specie, come lucidamente osservato dal
Tribunale amministrativo umbro, dal momento che la piena notizia dell’integrale
applicazione dei precetti contenuti nel suindicato comma 1-quater dell’articolo
10 della legge n. 109 del 1994 era stata estesa all’odierna appellante
con nota 14 maggio 1999 dell’Amministrazione appellata, che, nel
richiedere la presentazione dei documenti comprovanti il possesso dei
dichiarati requisiti, specificava che l’inottemeperanza avrebbe
determinato, tra l’altro, l’escussione della cauzione.
A questa stregua (e per quanto
superfluamente rispetto alle finalità presidiate dalla norma che
disciplina l’utile avvio del momento partecipativo) non può non
riconoscersi a quella nota quanto meno una perfetta equivalenza ai fini
della comunicazione di avvio del procedimento.
Peraltro non assume alcun
rilievo, a questo fine, il richiamo argomentativo, svolto dall’appellante,
alle disposizioni contenute nel decreto del Presidente della Repubblica
21 dicembre 1999, n. 554 (recante il regolamento di attuazione della
legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109 e
successive modificazioni): secondo questa tesi il suindicato testo
regolamentare conterrebbe una chiara e univoca indicazione nel senso di
imporre, in caso di sanzioni, la previa comunicazione agli interessati
concedendo loro "un termine non inferiore a venti giorni per la
presentazione di eventuali giustificazioni scritte" (così si legge
nell’articolo 6, comma 1 del suindicato regolamento).
Non è necessario opporre a
questa deduzione il rilievo che la norma invocata è successiva ai fatti
di causa e, in quanto tale, risulterebbe inapplicabile. La
prospettazione, infatti, non può essere condivisa, indipendentemente
dalla problematica della vigenza del precetto.
L’articolo 6 del d.P.R. n.
554/1999, infatti, disciplina diversa fattispecie, cioè la fase di
comminatoria delle sanzioni, da tenersi avanti l’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici, per violazione del dovere di informazione
di cui all’articolo 4, commi 6 e 18 e del dovere di esatta
dichiarazione e di dimostrazione circa il possesso dei requisiti di
capacità economio-finanziaria e tecnico-organizzativa di cui all’articolo
10 comma 1 quater della legge n. 109/1994.
Tale fase, infatti, fuoriesce
totalmente dal contesto procedimentale prefigurato nell’articolo 10 c.
1 quater, che, in proposito, si limita a disporre la segnalazione del
fatto (cioè dell’inadempimento al dover di esatta dichiarazione e
dimostrazione del possesso dei requisiti) all’Autorità di vigilanza
prevista dal precedente articolo 4 della medesima legge 11 febbraio
1994, n. 109.
Prefigurandosi, cioè, un
autonomo procedimento, avanti un organo diverso da quello che gestisce
la gara e per ragioni connesse sì con quest’ultima, ma in funzione
del più ampio rispetto dei principi enunciati nel primo comma dell’articolo
1 del medesimo testo legislativo (con particolare riferimento al
presidio della correttezza e della libera concorrenza, che richiede da
parte degli imprenditori comportamenti leali e adeguati), è evidente
che debbano essere conferiti, in quella sede, strumenti utili di tutela
agli interessati.
La richiesta di
giustificazioni, cui accenna parte appellante, risponde, di conseguenza,
non già al canone di obbligatorietà della partecipazione (desumibile
dall’articolo 7 della legge n. 241 del 1990), ma al diverso (e
sicuramente più pregnante) principio di adeguata difesa in materia di
procedimenti sanzionatori.
Il secondo motivo è
chiaramente inammissibile.
Accertato come la nota 14
maggio 1999 del Comune di Città di Castello avesse rappresentato all’odierna
appellante l’applicabilità, in caso di inosservanza del dovere di
conforme dimostrazione sul possesso dei requisiti dichiarati, del
disposto del summenzionato articolo 10 c- 1 quater della legge 11
febbraio 1994, n. 109, ivi compresa l’escussione della cauzione, ne
deriva che l’eventuale deviazione dalla lex specialis contenuta nel
bando avrebbe dovuto essere ritualmente e tempestivamente impugnata dall’interessata.
Il che non è avvenuto.
Va soggiunto che, nel caso di
specie, il riferimento non esplicito in bando ai contenuti della norma
appena richiamata non era stricto sensu indispensabile, dovendosi
ritenere operante in materia il principio di necessaria acquisizione all’atto
della c.d. regolamentazione cogente, attraverso la quale sono introdotti
le clausole e i contenuti necessari, derivanti dall’applicazione
organica della disciplina normativa in una determinata fattispecie.
Non riceve, infine, favorevole
scrutinio la prospettata questione di illegittimità costituzionale del
più volte menzionato articolo 10 c.1 quater della legge n. 109 del 1994
in relazione all’articolo 3 della Costituzione (recte del connesso
principio di ragionevolezza).
L’argomentazione si sviluppa
tutta sulla asserita diversità di comportamento (e di conseguente
rilevanza) tra la circostanza che la prova sul possesso dei requisiti
dichiarati non sia data e l’ipotesi che la documentazione offerta non
confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione.
La legge non si preoccupa
affatto dell’aspetto psicologico sottostante i due diversi
comportamenti, ma si limita a prendere atto che, in entrambi i casi,
quanto dichiarato nella domanda non ha ricevuto riscontro sia per
mancanza di prova sia perché la stessa non si è rivelata adeguata. Gli
effetti, a ben vedere, sono identici e la natura del contegno, anche se
articolato in diverso modo, è insuscettibile di diversa valutazione. Si
tratta, infatti, in entrambi i casi, di proposte di contratto non serie,
fondate su una realtà imprenditoriale non documentabile e, in quanto
tali, confliggenti con i principi regolatori della materia elencati nell’articolo
1 della citata legge n. 109 del 1994.
L’insuscettibilità di una
diversa valutazione tra le due forme di contegno, entrambe censurabili,
in quanto produttrici di un medesimo risultato, conduce a escludere che
il principio di ragionevolezza possa essere stato in qualche modo
vulnerato.
La questione prospettata è, a
questa stregua, manifestamente infondata.
Tenuto conto della novità
della questione, sembra equo compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale – Sezione Quinta respinge l’appello.
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